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Coronavirus: il particolato atmosferico accelera la diffusione dell'infezione

Alte concentrazioni di polveri fini a febbraio in Pianura Padana hanno esercitato un’accelerazione anomala alla diffusione virulenta dell’epidemia: l'ipotesi di un gruppo di ricercatori della Società Italiana Medicina Ambientale, dell'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro" e dell'Università di Bologna


C'è una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di particolato atmosferico e il numero di casi infetti da COVID-19. È l'ipotesi presentata in un position paper (PDF) da un gruppo di ricercatori della Società Italiana Medicina Ambientale, dell'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro" e dell'Università di Bologna.

Una solida letteratura scientifica descrive il ruolo del particolato atmosferico - le polveri inquinanti presenti nell'aria - come efficace “carrier”, cioè vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Inoltre, il particolato atmosferico è anche un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni.

A partire da questa base scientifica, i ricercatori hanno recuperato i dati dell'inquinamento atmosferico pubblicati sui siti delle ARPA - le Agenzie regionali per la protezione ambientale - relativi a tutte le centraline di rilevamento attive sul territorio nazionale tra il 10 e il 29 febbraio, mettendoli in relazione con l'aumento dei contagi da COVID-19 aggiornati al 3 marzo, in modo da considerare le circa due settimane di incubazione del virus.

Un confronto che si è dimostrato significativo nell'area della Pianura Padana, dove si sono osservate curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di due settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico. L'inquinamento, insomma, avrebbe esercitato un’azione di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia.

“Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura Padana hanno prodotto un boost, un’accelerazione alla diffusione del COVID-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”, spiega Leonardo Setti, ricercatore al Dipartimento di Chimica Industriale "Toso Montanari" dell'Università di Bologna.

Gli fa eco Gianluigi de Gennaro, dell’Università di Bari: “Le polveri stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. Ridurre al minimo le emissioni e sperare in una meteorologia favorevole”. Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), aggiunge: “L’impatto dell’uomo sull’ambiente sta producendo ricadute sanitarie a tutti i livelli. Questa dura prova che stiamo affrontando a livello globale deve essere di monito per una futura rinascita in chiave realmente sostenibile, per il bene dell’umanità e del pianeta. In attesa del consolidarsi di evidenze a favore dell'ipotesi presentata, in ogni caso la concentrazione di polveri sottili potrebbe essere considerata un possibile indicatore o "marker" indiretto della virulenza dell'epidemia da COVID-19”. Grazia Perrone, docente di metodi di analisi chimiche della Statale di Milano, precisa: “Il position paper è frutto di un studio no-profit che vede insieme ricercatori ed esperti provenienti da diversi gruppi di ricerca italiani ed è indirizzato in particolar modo ai decisori”.

All'ipotesi presentata nel position paper, ha replicato la Società Italiana di Aerosol (IAS) con una nota (PDF) firmata tra gli altri da Erika Brattich, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia dell'Alma Mater. "Le attuali conoscenze relative all’interazione tra livelli di inquinamento da PM e la diffusione del COVID-19 sono ancora molto limitate e ciò impone di utilizzare la massima cautela nell’interpretazione dei dati disponibili", precisa Brattich. "Un eventuale effetto dell'inquinamento da particolato sul contagio da COVID-19 rimane, allo stato attuale delle conoscenze, un'ipotesi che dovrà essere accuratamente valutata con indagini estese ed approfondite".


"Ci sono alcuni aspetti non trascurabili che ci dicono che è ancora prematuro trarre conclusioni", aggiunge la professoressa Laura Tositti del Dipartimento di Chimica "Giacomo Ciamician". "I virus non rimangono biologicamente attivi se non ci sono le condizioni favorevoli, e tra gli ossidanti atmosferici e la radiazione UV in aumento con la progressione stagionale è ignoto se il virus si inattivi ed in quanto tempo. Ci sono diversi fattori che hanno una grande influenza sul particolato abiotico e ci sono diversi aspetti ancora molto poco studiati relativi al particolato biologico".